
CRITICHE

Questi dipinti hanno un’anima verace, come lo spirito napoletano che tutto avvolge. In un ricordo caravaggesco, che a Napoli ha lasciato alcune opere, ed in particolare mi riferisco alle Sette opere della Misericordia e La Flagellazione di Cristo, si può interpretare, seppur in minima parte, un’adesione di Cervone a delle scelte formali che stabiliscono nel pathos cromatico e soprattutto luministico merisiano, il punctum a cui appigliare lo svolgimento e la narrazione dei suoi soggetti. All’altro capo dell’analisi, invece, si pone quello che, come si evince anche dal titolo di una delle opere, è un ritaglio mitopoietico nell’ambito della ricerca artistica del pittore. Un dualismo aberrante, che consta di una narrazione che, se concettualmente trae linfa dal µúqoς greco, in verità si modella su fantasie create hic et nunc, la cui straordinarietà risiede nella traduzione epica di eventi reali. Una simile profondità maieutica appartiene ed emerge dai dipinti di Luigi Cervone attraverso una magistrale resa figurativa, che denota una conoscenza anatomica profonda e dalla quale, alla maniera dei grandi maestri dell’arte, sgorga una linfa vitale che plasma le oscure tavole intrise di colore. Afflati al contempo vibranti e anelanti, in cui pietas et consolatio diventano il contraltare di una ricerca di libertà altra che si trova al di fuori dello spazio pittorico. Goethe affermava che “non c’è via più sicura per evadere dal mondo, che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte”. In ciò, la pittura di Cervone trova un humus tangibile.
Azzurra immediato
Luigi Cervone inventa la forza della sensualità. È capace di far vedere la gabbia dell’amore e quello di terribile che ne può venire; i suoi bellissimi dipinti mostrano uomini schiavi della mascolinità disegnata senza volto perché la forza non ne ha, ma incapaci di uscire dai sensi, intesi anche come senso della vita, della rabbia, delle catene dell’esistenza. C’è sempre un laccio, un fazzoletto che copre il volto, la libertà di esprimere la gioia, l’amore che finisce sempre per perdersi nei sensi. Sensi che si intuiscono anche quando non avrebbe la voglia di farli vedere. Si intuiscono dalle pose, dai volti sempre posti in basso o girati da una parte; mai di fronte, mai con gli occhi che guardano. Gli occhi che non vogliono guardare.
Daniela Semprebene


Perché devo andare?, Vado, vado, vagabondo per le colline, cercando sollievo per il mio cuore solitario. Torno alla mia terra, alla mia casa! Non vorrò di nuovo andare lontano…” Mi viene in mente Malher e ‘L’addio’ , l’ultima delle liriche cinesi da lui scelte e musicate in Le chant de la terre, meditazione sulla vita, la morte, la natura e i cicli del tempo.
Mi sono fermata a guardare umilmente le opere di Luigi, spogliata da ogni pregiudizio e/o aspettativa, senza nient’altro addosso che il desiderio di respirare il soffio della sua Arte.
Adesso, a una distanza di tempo che non avrebbe senso quantificare, posso tornare con la mente a guardare. Così mi perdo di nuovo nelle sue culle ricorrenti, rievocate con forza in simboli ora più evidenti ora meno palesi. Mi sembra di sentire il suo patimento e lo faccio mio.
Le immagini mi penetrano dentro, ascolto le forme armoniose e mi nutro dei colori.
Le sue creature, melanconiche, a volte riposano in alcove di luce.
Ecco, ora sento il suo star ‘dentro’ per essere, essere per divenire. E nel divenire vivo il suo stesso tormento; non c’è più distanza tra me e le tele: le penetro e mi pare di sentir parlare… “andare, si, ma…perché devo andare? Vado, vado…” sapendo di non potere più tornare indietro.
Vado, incontro alla fine.
Venire alla luce è stato dolore, la luce può ferirmi ancora, la luce mi strappa al sonno, è una frusta che mi obbliga a guardare. La sento nella carne, nel costato.
La luce mi attira a sé, mi vuole sveglio ad attraversare il caos e penetrare ogni cosa, anche la gioia, anche l’amore…si, l’amore.
Come toccarlo senza ucciderlo, senza vedere sgorgare il dolore!
Patrizia Amalfi