L'Arte non è una scelta.
Come non si può scegliere di essere sensibili. Dalla più tenera età, la percezione della realtà appare diversa. Ciò che comunemente è vissuto con indifferenza, nel bambino sensibile dischiude voragini di angoscia. Egli scorge la forma della luce nell’oscurità, e l’ombra più nera dove gli altri vedono solo fulgori; le altezze dei suoi pensieri sono ignorate dai più, e le sue cadute sono di conseguenza devastanti; eppure, preferisce tacere. Ben presto, conclude che svelarsi lo espone a lazzi, scherni, parole e gesti di disapprovazione, talvolta a noncuranza o incomprensioni: reazioni tutte che finiscono col lacerarlo ancora di più. Allora, così come ogni essere vivente è costretto a guadagnarsi un proprio equilibrio per sopravvivere, il bambino erige un'armatura per schermirsi, forgia pazientemente lo scudo contro cui, nelle sue intenzioni, s'infrangeranno gli strali della superficialità. È piccolo, non si rende conto che si sta trincerando in un bozzolo che un giorno l'opprimerà, soffocandolo: egli intende semplicemente proteggersi da quella parte del mondo che lo ferisce. Tuttavia, inesorabilmente il guscio si rivelerà troppo fragile e troppo stretto per quella incontenibile sensibilità, protesa in qualche modo ad esprimersi, perché sbocciare è parte della sua natura come volare per un uccello o nuotare per un pesce.
 
          L'Arte non è una scelta.
Come non si può scegliere quando terminerà la propria infanzia. In alcuni, i più fortunati, l'infanzia si fluidifica nelle trame del tempo che dolcemente la culla finché un giorno non si desta adolescenza. Per altri, è un trauma improvviso a strapparli bruscamente dall'infanzia, nonostante vi siano aggrappati con quella ostinata tenacia tipica dei bambini, scaraventandoli nudi ed inermi nella gelida mischia della realtà. Tremano, battono i denti, soffrono l’ignoto che alita sui loro capi chini e in lacrime, li corrode la nostalgia del grembo: l'orizzonte sfuma evanescente nella nebbia, che tutt'intorno offusca lo sguardo e ottunde il respiro. Incedere nei giorni diventa un'impresa da adulti che non ammette compromessi. 
 
          L'Arte non è una scelta.
Come non è possibile scegliere di respirare. Quando si trattiene il fiato troppo a lungo, mente e corpo vogliono una sola cosa: respirare. Anche se si è completamente immersi nell'acqua e si sa che, inspirando, non entrerà che acqua nei polmoni, non si può fare altrimenti. Ogni fibra dell'essere mira ad un solo obiettivo, spinta dalla bramosia di liberare il proprio istinto e sopravvivere. Come per una fiera imbestialita che agguanta la preda dopo un’estenuante caccia, non c’è più adito per il pensiero: la cassa toracica si accinge ad espandersi, i polmoni a dilatarsi e implacabilmente la bocca si spalanca per divorare l’aria e la vita.
 
          L'Arte non è una scelta.
Si può scegliere di ascoltare il mercato e il pubblico, assecondarne istanze e inclinazioni, cucendosi addosso l'immagine ammaliante e artificiosa di un artista che guida le mode mentre in realtà ne è guidato. Si può scegliere di replicare ad oltranza, fino alla perfezione, un'opera particolarmente riuscita, assimilandosi ad una improbabile catena di montaggio dell’estetica. Si può scegliere persino di sacrificare un elemento del binomio forma-sostanza, concentrandosi affatto su uno solo di essi. Ma l'Arte germoglierà altrove.
Magari tra l’inarrestabile creatività di un bambino di nome Leonardo, che non conobbe mai sua madre.
O tra le mani agili e curiose del piccolo Michelangelo, a cui invece troppo presto morì.
Forse tra gli indomiti ciuffi con cui si sarebbe ritratto l'altro Michelangelo, a cui la peste portò via il padre.
Fu invece il fiume che restituì a René la disperata madre.
Amedeo s’ammalò di miseria, Salvador fu convinto d'essere la reincarnazione del fratellino defunto mentre Vincent fu unanimemente considerato un idiota.
No, no: l'Arte non è mai una scelta.
È lo scudo, il talento e la condanna che scaturiscono dalla sensibilità.
È il respiro che restituisce alla vita il fiato trattenuto dell’esistenza.
È la verità: l’unica concessa all'artista per vivere la realtà trasformandola nei sogni che da bambino gli furono rubati. 
                                                                                                                  Luigi Cervone
 
 
Nella banalità di immagini e parole prostituite a un sistema dell’arte votato al profitto e al potere mediatico, Cervone dimostra che l’arte è una scelta di vita che non si può improvvisare, fatta di sacrificio, anche fisico, e di sapiente perizia tecnica, ma in nessun caso la vera Arte può piegarsi allo squallido compromesso per cui il concetto è superiore alla forma, come il vero artista non può preferire l’apparenza all’essere. Non v’è bisogno di alcuna mediazione perché gli occhi siano attratti dalle sue opere: la costruzione scenografica delle luci che, come in Caravaggio, scolpisce le anatomie e crea la tensione drammatica del soggetto rappresentato; la qualità fisica di un realismo anatomico che rivela uno studio tecnico profondissimo; l’effetto di straniamento per l’interpolazione tra soggetto figurato e trattazione materia del fondale, sono peculiarità davanti chiunque, studioso o illetterato che sia, proverebbe stupore. Il riferimento al Merisi è quantomai puntuale non solo per l’uso delle luci come elemento drammatizzante, ma anche se si considera la scelta del fondo bruno, che isola la figura umana, e la ripresa ravvicinata del soggetto, spesso rinunciando al piano frontale per un punto di vista vorticosamente scorciato. Il riferimento culturale, però, non è determinato da un gioco intellettualistico, né dalla volontà di fare sfoggio di conoscenza, tant’è vero che iconograficamente non è rintracciabile alcuna citazione puntuale; è piuttosto l’inclinazione naturale di chi, per mestiere (intendendo questa parola nel senso originario del termine, ossia l’insieme di esperienza artigianale e tecnica) studia l’uomo nella sua interezza; composta di muscoli, vene e ossa, ma anche di consapevolezza esistenziale, ossia coscienza di sé in rapporto con la propria storia. In principio di ciò, dunque, l’attenzione è rivolta massimamente all’essere Uomo, con tutte le conseguenze che tale esistenza implica, vale a dire il libero arbitrio, il peso della propria coscienza, la responsabilità verso la propria storia, passata e futura. L’uomo è artefice di se stesso, porta il fardello dei propri sentimenti, nell’arco della sua esistenza modifica l’ambiente che ha intorno e tenta di superare la mortalità corporea, attraverso i propri figli, quelli fisicamente intesi, ma soprattutto quelli generati dall’insegnamento del proprio operato. La faticosa consapevolezza di avere un tempo, l’eroismo di lasciarsi andare ai propri sensi, anche quando suggeriscono umiliazione o rabbia, sono le emozioni a cui riportano i lavori di Cervone. Sono emozioni che hanno come referente l’umanità tutta, per cui difficilmente non si rimane coinvolti: la trattazione materia dei fondali, motivo per cui le opere di Cervone hanno bisogno di essere vissute dal vivo, non soltanto fortifica la composizione volumetrica delle forme aggiungendo una tridimensionalità reale, ma a livello emotivo fa sì che l’effetto di straniamento abbia un hic e un nunc irripetibili, in quanto nessuna riproduzione grafica, per quanto accurata possa essere, potrà mai restituire la relazione fisica che l’opera crea con lo spazio e, di conseguenza, con l’osservatore.
Cecilia Paolini
 
Utilizzare espressioni nuove quando fiumi di parole sono già stati scritti, è il complesso compito a cui il critico arguto dovrebbe rispondere per essere all'altezza del proprio ruolo. In un’epoca in cui proliferano figure e figuranti del sistema dell'arte che cavalcano l'onda mediatica della visibilità e della notorietà misurando il loro successo con il numero di like ricevuti, ci si rende conto che fare un passo indietro e ritrovare lo spessore umano dato dall'autentico valore del nostro essere, dalla dimensione introspettiva della ricerca, dalla forza propulsiva di codificare nuovi profondi linguaggi, è un atto necessario affinché la globalizzazione tecnologica non ci travolga totalmente e irrimediabilmente, indebolendo quella che dovrebbe essere la vera libertà, come scrisse Jodorowsky, di essere capaci di uscire da se stessi.
L'opera di Cervone, esattamente come un atto psicomagico, diventa un atto di guarigione: il rituale pittorico permette all'artista di scavare nel profondo delle sue ferite emotive, scarnifica i ricordi, estrapolandone il dolore, scioglie i nodi senza timore di guardarsi dentro, lenisce la sua sofferenza per mezzo dell’Arte. Irrompe così sulla tela tutta la sua forza espressiva, incarnando attraverso la materia la volumetria di quei corpi in attimi sospesi: l'abilità tecnica, la maestria compositiva, la profonda conoscenza del colore, sono solo il mezzo attraverso cui Cervone esprime se stesso creando un perfetto equilibrio dicotomico tra rappresentazione figurativa e riflessione filosofica. Artista erudito, Cervone attinge da atavici ricordi e modelli ancestrali, perpetuando in un incessante ricerca formale con l'invocazione di miti che hanno incarnato il tempio sacro della sua memoria. Nei dipinti di Cervone vi è intrinseco tutto il tormento del rapporto con il suo essere più profondo: corde, legami, strappi emotivi, squarci incisi lasciati dalla forza delle proprie mani, che si liberano pennellata dopo pennellata, velatura dopo velatura, passando per il modellato di luci e ombre, nelle tenebre e nei riflessi di scenografici contrasti luministici con cui egli trapassa i confini materici della pittura sconvolgendo lo spettatore. La plasticità fisica dell’artista, diventa il corpo di quel Guerriero impresso sulla tela, denudato fisicamente e metaforicamente, la cui definizione muscolare, la visceralità delle carni, enfatizzano il dirompente impatto emotivo, dando forma alle sue più profonde riflessioni. La parte inconscia del sé viene svelata con consapevolezza, donandosi senza riserve all’attento osservatore che saprà coglierne l’intimo messaggio.
Nell'ovvietà con cui talvolta gli artisti contemporanei vengono dipinti attingendo a retaggi culturali pregressi, associati a movimenti, correnti e linguaggi codificati da altri, appare urgente più che mai il valore della propria unicità: l'artista è unico e irripetibile, per vissuto ed esperienza, per configurazione temporale e geografica, e come tale va esplorato, attraverso occhi nuovi, capaci di guardare quello che è, e quello che sarà, e non quello che è già stato, riscrivendo una nuova tradizione pittorica sub specie aeternitatis, sotto l’aspetto dell’eternità, solo così potremo restituire all’opera e all’artista la sua più autentica verità storica.
Tamara Follesa
 
S'intuisce così che questi uomini hanno conquistato faticosamente il loro vigore, superando le proprie fragilità: il sacrificio, le rinunce, le umiliazioni, le cadute e le paure sono il loro punto di partenza per acquisire la coscienza di sé e quella forza necessaria ad oltrepassare i confini fisici della tavola che li accoglie. Corifeo di questa filosofia sull’uomo, Luigi Cervone plasma i suoi “giganti buoni” che tuttavia spaventano: non sono superuomini, ma ciò che ciascun uomo potrebbe essere, se avesse coscienza di quanta forza può germogliare dalle proprie debolezze, innate o indotte che siano.
Ogni tentativo di lettura iconologica non può prescindere dunque da questa chiave interpretativa, in cui anche la capacità mitopoietica viene rivisitata secondo una visione filosofica originariamente immanente, che si eterna solo dopo la conclusione dell'opera d'arte.
Cervone dispiega una serie di miti conosciuti, ma allo stesso tempo nuovi per contenuti e soggetti.
Anelito mitopoietico presenta un dio-padre, saldamente ancorato alla terra, che – lungi dalla noncuranza tipica degli dei, piuttosto con sforzo immane - genera strali di luce o di dannazione per i suoi figli.
Il mito della caverna di Platone è esplicito in Hairesis, con l’inconsueta rappresentazione della figura umana rivolta verso l’osservatore e non - come ci si attenderebbe - verso la parete sulla quale la luce proietta le ombre. L’illusione quindi coincide con lo spettatore, denudato della propria consistenza materica e di ogni traccia del suo passaggio.
Un novello Narciso, che non si fonde nella sua stessa immagine, ma vi si eleva alla ricerca di un'armonia tra le sue sfaccettature, prende vita ne Gli argini usurpati, in cui si ravvisa anche il mito di Giano bifronte, rivisitato secondo una nuova luce: l’uomo possiede la capacità di rigenerarsi e duplicarsi formalmente uguale, ma sostanzialmente diverso.
Accinctio e Ovunque le parole alludono alla leggendaria arte del Bushido – la morale del guerriero – che, nonostante gli ostacoli fisici e i vincoli che pendono dall'alto come corde, insegna al guerriero come rialzarsi e riprendere la propria battaglia, o come prepararsi sapientemente ad affrontarne una nuova.
Insinuandoci condiscendenti nelle pieghe dei drappi gualciti, nei solchi delle rughe che cantano il proprio vissuto, nelle contorte nodosità del canapo, nelle linee che segnano le mani, o lasciandoci traghettare fiduciosi lungo i sentieri che le vene, la pelle e le striature dei muscoli disegnano, coglieremo tutta l’eleganza e la poeticità dell'arte di Cervone.
E conserveremo nell'animo l'eco delle sue accattivanti riflessioni sul mistero dell’uomo; un mistero che, parafrasando Dostoevskij, occorre tentare di risolvere senza timore di affrontarlo, perchè solo così si può essere uomini.
Claudia Manganiello
 
Cervone spoglia fisicamente e simbolicamente i corpi umani, esponendoli a una luce tanto irreale quanto teatrale, che ne mette a crudo le nudità come scottanti verità da scoprire. L’artista carica di attesa l’osservatore con l’acceso simbolismo delle figure, la forza sconvolgente della composizione (l’uomo a piedi in su ricorda la Crocifissione di San Pietro in Santa Maria del Popolo a Roma) e la mistica interrelazione tra il maschile e il femminile – Il 3 nell’infinito – protesi a congiungersi attorno al terzo elemento: un viluppo di fili di ferro da leggersi come la struttura atomica da cui origina la vita.
Giulia Sillato
 
Sottolineo l’osservazione di Roberto Longhi, che mi trova d’accordo, di cercare il valore di Caravaggio nel rapporto tra il fisico e il metafisico anche nelle sue opere. Caravaggio ha avuto il merito di rappresentare il dramma in immagini fisse, la cui presenza quasi teatrale era scandita dal chiaroscuro appunto caravaggesco, un modo quasi primordiale di rivelare il senso dell’uomo partendo dal mistero. In questa sede Cervone, che recupera questa tradizione nella composizione dell’opera per proiettarla nella necessaria evoluzione dei giorni nostri. L’opera di Cervone rappresenta nell’esecuzione e nel significato un movimento di rivelazione che non ignora il senso di un mistero a tratti prevalente, a volte indulgente nell’evitare di celarsi all’osservatore.
Giammarco Puntelli
 
Le figure di Cervone sono narrazione di esistenze, incarnazione di momenti e circostanze, sono il dispiegarsi netto e precisato di un mondo umano irrelativo. Per questo l’artista aggiunge spesso sulla superficie delle sue opere pittoriche componenti materiche e plastiche, per abbinare elemento ad elemento, materia a materia, evidenza a evidenza. Questa addizione, questa contaminazione, fa da contraltare e si pone come punto al tempo stesso di raccordo e di frattura con il mondo umano. Di raccordo, perché oggettivizza, rende concreta un’idea che altrimenti rimarrebbe chiusa in se stessa, quasi rappresentazione di un’ossessione e quindi si traduce come parte della dialettica con il mondo e con la realtà. Di frattura, perché anche fisicamente e visivamente è un elemento estraneo, una incongruenza che altera con violenza poetica gli equilibri pittorici, un’asperità sulla spianatura degli sfondi su cui vanno ad addensarsi sensi e significati. Come detriti.
Francesco Giulio Farachi
 
Questi dipinti hanno un’anima verace, come lo spirito napoletano che tutto avvolge. In un ricordo caravaggesco, che a Napoli ha lasciato alcune opere, ed in particolare mi riferisco alle Sette opere della Misericordia e La Flagellazione di Cristo, si può interpretare, seppur in minima parte, un’adesione di Cervone a delle scelte formali che stabiliscono nel pathos cromatico e soprattutto luministico merisiano, il punctum a cui appigliare lo svolgimento e la narrazione dei suoi soggetti. All’altro capo dell’analisi, invece, si pone quello che, come si evince anche dal titolo di una delle opere, è un ritaglio mitopoietico nell’ambito della ricerca artistica del pittore. Un dualismo aberrante, che consta di una narrazione che, se concettualmente trae linfa dal µúς greco, in verità si modella su fantasie create hic et nunc, la cui straordinarietà risiede nella traduzione epica di eventi reali. Una simile profondità maieutica appartiene ed emerge dai dipinti di Luigi Cervone attraverso una magistrale resa figurativa, che denota una conoscenza anatomica profonda e dalla quale, alla maniera dei grandi maestri dell’arte, sgorga una linfa vitale che plasma le oscure tavole intrise di colore. Afflati al contempo vibranti e anelanti, in cui pietas et consolatio diventano il contraltare di una ricerca di libertà altra che si trova al di fuori dello spazio pittorico. Goethe affermava che “non c’è via più sicura per evadere dal mondo, che l’arte; ma non c’è legame più sicuro con esso che l’arte”. In ciò, la pittura di Cervone trova un humus tangibile.
Azzurra Immediato
 
Luigi Cervone inventa la forza della sensualità. È capace di far vedere la gabbia dell’amore e quello di terribile che ne può venire; i suoi bellissimi dipinti mostrano uomini schiavi della mascolinità disegnata senza volto perché la forza non ne ha, ma incapaci di uscire dai sensi, intesi anche come senso della vita, della rabbia, delle catene dell’esistenza. C’è sempre un laccio, un fazzoletto che copre il volto, la libertà di esprimere la gioia, l’amore che finisce sempre per perdersi nei sensi. Sensi che si intuiscono anche quando non avrebbe la voglia di farli vedere. Si intuiscono dalle pose, dai volti sempre posti in basso o girati da una parte; mai di fronte, mai con gli occhi che guardano. Gli occhi che non vogliono guardare.
Daniela Semprebene
 
 
Perché devo andare?, Vado, vado, vagabondo per le colline, cercando sollievo per il mio cuore solitario. Torno alla mia terra, alla mia casa! Non vorrò di nuovo andare lontano…” Mi viene in mente Malher e ‘L’addio’ , l’ultima delle liriche cinesi da lui scelte e musicate in Le chant de la terre, meditazione sulla vita, la morte, la natura e i cicli del tempo.
Mi sono fermata a guardare umilmente le opere di Luigi, spogliata da ogni pregiudizio e/o aspettativa, senza nient’altro addosso che il desiderio di respirare il soffio della sua Arte.
Adesso, a una distanza di tempo che non avrebbe senso quantificare, posso tornare con la mente a guardare. Così mi perdo di nuovo nelle sue culle ricorrenti, rievocate con forza in simboli ora più evidenti ora meno palesi. Mi sembra di sentire il suo patimento e lo faccio mio.
Le immagini mi penetrano dentro, ascolto le forme armoniose e mi nutro dei colori.
Le sue creature, melanconiche, a volte riposano in alcove di luce.
Ecco, ora sento il suo star ‘dentro’ per essere, essere per divenire. E nel divenire vivo il suo stesso tormento; non c’è più distanza tra me e le tele: le penetro e mi pare di sentir parlare… “andare, si, ma…perché devo andare? Vado, vado…” sapendo di non potere più tornare indietro.
Vado, incontro alla fine.
Venire alla luce è stato dolore, la luce può ferirmi ancora, la luce mi strappa al sonno, è una frusta che mi obbliga a guardare. La sento nella carne, nel costato.
La luce mi attira a sé, mi vuole sveglio ad attraversare il caos e penetrare ogni cosa, anche la gioia, anche l’amore…si, l’amore.
Come toccarlo senza ucciderlo, senza vedere sgorgare il dolore!
Patrizia Amalfi